Fabio Frizzi, ovvero come coniugare la musica da film attraverso i generi del cinema, con particolare riferimento a quello italiano. Sì, perché Frizzi, compositore, orchestratore e direttore d’orchestra, ha composto oltre cento colonne sonore, da ‘Fantozzi’ ai tanti film con Lucio Fulci: da ‘…e tu vivrai nel terrore – L’aldilà’ fino all’ultimo ‘Un gatto nel cervello’ e al progetto musicale di questi ultimi anni, ‘Frizzi2Fulci’.

Backstage di un compositore

Recentemente Frizzi ha dato alle stampe una sua interessantissima autobiografia, che ha intitolato ‘Backstage di un compositore’, con la prefazione di Vincenzo Mollica: una manna per i cinefili appassionati dei film dell’ultimo mezzo secolo. Lì il musicista rende conto di tutta la sua vita, ricordando, fra le altre cose, anche le numerose collaborazioni con registi quali Luciano Salce, Steno, Vittorio Sindoni, Tonino Valerii, Gabriele Lavia, Bruno Corbucci, Carlo ed Enrico Vanzina, nonché della citazione del tema principale di ‘Sette note in nero’, che Quentin Tarantino volle fare nel suo ‘Kill Bill’.

Un gatto nel cervello: Frizzi a pranzo con Fulci

Una delle tante storie raccontate riguarda un pranzo fra Fabio Frizzi e Lucio Fulci, che prelude all’ultima collaborazione fra i due, quella per ‘Un gatto nel cervello’. La narrazione che ce ne ha regalato, ben più estesa di quella contenuta nel libro, diventa l”occasione per un piccolo grande esempio di storia del cinema e, perché no?, delle abitudini alimentari di molti artisti nella Mecca romana.

Un pranzo dalla Celestina

“Ho ancora le immagini di quel pranzo con Lucio davanti agli occhi – spiega Frizzi -: era l’ultima volta e mi si è fissata nella memoria. Ma ce ne sono state tante, come sul set di ‘Luca il contrabbandiere’, si mangiava insieme con la troupe, si faceva casino, si stava molto bene. Partiamo però dal contesto. La Celestina era un ristorante che oggi credo abbiano riaperto ma non è più come quello di allora. Il cinema italiano nasceva, viveva, si realizzava soprattutto a Roma e il quartiere dove c’erano tutte le case di distribuzione e produzione più importanti erano i Parioli, questa collinetta che sta verso la Salaria, un quartiere molto alto, abitato bene, professionisti, ricco. Quando ero piccolino io, c’era l’idea di andare a vivere ai Parioli… ‘troviamo un bell’attico ai Parioli’…

Oggi è molto invecchiato, è diventato un quartiere con tanti uffici e molte persone anziane, però è sempre bello, un quartiere nato all’inizio del Novecento. La strada principale si chiama ovviamente viale Parioli e porta dalla fine di Villa Glori fino in cima, a piazza Ungheria, tagliando la collinetta.

Mio papà aveva il suo ufficio, l’ufficio storico della Euro International Films, la direzione generale e commerciale, in viale Rossini, praticamente accanto a piazza Ungheria. Quindi, quando aveva pranzi o cene con i suoi collaboratori, o con i proprietari dei cinema, tipo Nino Amati, il grande ‘boss’ del cinema a Roma, o con produttori come Cecchi Gori o Clementelli, che giravano per casa nostra quando ero ragazzo, insomma all’ora di pranzo si andava alla Celestina, dove c’era Elio, il capo cameriere.

La Celestina era l’emanazione di un altro grande ristorante, quello di Gigi Fazzi, un luogo molto su, dove la sera andavano i produttori e gli attori a mangiare. Marcello Fazzi, uno della famiglia, forse un fratello, aveva aperto questa Celestina, un posto figo. Oggi, se vai da Vanni, il ristorante dietro la Rai, sei sicuro di beccare qualcuno, una compagnia diciamo ‘da celluloide’. Allora, il posto adatto era La Celestina, andavi a mangiarti un primo o un secondo lì, e trovavi magari un produttore.

Insomma, quella volta del pranzo famoso, Lucio mi chiamò. Fu una cosa un po’ strana, perché avevamo un bel rapporto, però, sai com’è la vita, per esempio noi oggi siamo qui e ci vediamo dal computer, poi magari capita che per due anni non ci si veda, poi invece facciamo un libro insieme e stiamo insieme sei mesi… e Lucio era sempre incasinato, ma quella volta mi meravigliò. Ci sentimmo quasi per caso e fu lui a chiedermi di andare a mangiarci una cosa insieme perché mi voleva parlare.

Zoi intervista Frizzi

Ci trovammo davanti alla Celestina, dove io, pur essendo all’epoca quasi quarantenne, ero sempre ‘il figlio di Fulvio’, anche se Fulvio non c’era più da qualche anno. Era carino: sotto c’era un parterre pieno di tavoli, poi un paio di rialzi in fondo, una specie di palco (d’altra parte di quello ci occupiamo), ed Elio aveva preparato per me e per Lucio un piccolo tavolo in cima al locale, attraversandolo tutto. C’erano i cinematografari, soprattutto molta ‘serie B’, anche se pure noi a volte ne abbiamo fatto parte (ma c’è serie B e serie B, come tu ben sai), e volarono alcune parole, forse proprio perché Lucio stava passando, circa il fatto che uno di questi cinematografari doveva vedere John Cassavetes che gli avrebbe dato l’ok per un film. Appena ci sedemmo, Lucio bastonò quella persona con una battutaccia pungente, poi cominciammo a parlare.

Lui, in queste rare occasioni, mi raccontava anche la sua non facile vita, come di sua figlia Camilla, che se n’è andata recentemente, la quale aveva avuto un incidente a cavallo: Lucio, con il giovane, ma ormai vecchio amico Fabio, si lamentava anche un po’ di quello che gli succedeva. Però era sempre sopra le righe, sempre ironico: era uno spettacolo stare insieme a Lucio.

Lo vorrei davvero rivedere oggi, anche con la mia età: a trenta/quarant’anni sei un ragazzino, ma oggi per me sarebbe ancora di più un interlocutore di grande qualità. Riguardo alle pietanze di quel pranzo, vado per ipotesi: la fine degli anni ’80 era l’epoca dei soliti piatti romani, in quel periodo spesso a Roma mangiavo gli gnocchetti al gorgonzola, che stranamente andavano molto nella capitale! Alla Celestina però si andava di amatriciana o carbonara, i loro classici di grande successo.

Fu una bella chiacchierata, mi parlò di questo film ‘Un gatto nel cervello’, che onestamente non è un capolavoro, anche se la mia colonna sonora ha molto credito. Lui accettò anche per motivi di lavoro, di guadagno: siamo tutti augusti professionisti, poi magari, la volta che stai fermo per un po’, ti chiamano per una cosina e, dai, facciamola! Il film era un po’ impegnativo, lui ne fu il protagonista. L’idea è fighissima e geniale: lui aveva tanti dubbi, ma alla fine si stava determinando a farlo”.

‘Un gatto nel cervello’ è uno degli ultimi film di Fulci, qui nel ruolo anche del protagonista. È una sorta di meta-opera su lui stesso, le sue paure, le sue regie. Non è perfetto, ma è sicuramente degno di grande attenzione, specie per gli appassionati del genere horror/splatter. E poi sentiamo cosa dice ancora Frizzi: “Io ho capito venti o trent’anni dopo l’importanza delle cose che ho fatto con Lucio, lì per lì, ero un ragazzo, un entusiasta (lo sono ancora, se c’è da fare qualcosa la faccio, mi appassiono), poi, quando se ne andò e tutti cominciarono a chiedermi di raccontare di lui, mi resi conto di tutto.

Riascoltando le musiche, compresi appieno il valore della nostra collaborazione: fu un periodo di grazia, sempre difficile perché con Lucio non era facile lavorare, però ti costringeva a tirare fuori delle cose, delle idee, e nel nostro lavoro l’interlocutore può essere fondamentale!”

Frizzi2Fulci nasce anche a tavola

Nel tuo libro, scrivi che anche il progetto Frizzi2Fulci nasce all’insegna di grandi mangiate…

“Beh, a tavola sorgono amori e si consolidano amicizie, insomma nascono tante cose e devo dire che mi rincresce che da qualche anno non sono un gran bevitore perché mi fa male il vino, ma un bicchiere per brindare c’è sempre, soprattutto in Toscana dalle parti tue! Frizzi2Fulci è una cosa che ha funzionato.

Tu lo sai come succede: hai un’idea buona, però o è troppo presto, o non hai qualcuno che la capisce, magari rimane nel cassetto per tanto tempo. Frizzi2Fulci, in fin dei conti, dopo due o tre anni, è partito. Vedi, noi siamo tutti professionisti al servizio di chi ci vuole, sanno che siamo bravi nel nostro lavoro e ci chiedono, che so?, una musica per un Carosello o per uno spettacolo.

 

Però siamo anche dei creativi puri. Tu sei soprattutto uno scrittore, io scrivo musica ma mi sono divertito tanto a scrivere le parole del mio libro, e mi sono reso conto, proprio grazie a Frizzi2Fulci e ad altri progetti collaterali, che, sì, siamo al servizio di chi ha bisogno di un bravo professionista, ma forse la cosa più bella e divertente è portare avanti il nostro lavoro. Certo, io sono andato a ripescare cose create da me per altri, però poi a un certo punto sono comunque cose che ti appartengono.

A ricucinare il tutto con sapori e profumi nuovi, esaltandone alcuni aspetti, alla fine mi sono accorto che funziona. Frizzi2Fulci nasce quindi da questa humus. Quando morì Lucio, furono in tanti a venire da me e io a volte non ricordavo neanche le musiche: me le dovetti riascoltare! Finché non ho messo insieme il gruppo di cui parlo nel libro e organizzato due o tre pranzi come si deve, uno almeno in un posto dove a Roma si va spesso, Da Dante, un ristorante da dopo teatro o dopo spettacolo televisivo, perché si trova dietro viale Mazzini, in via Monte Santo. C’era anche Antonella, la figlia di Lucio, i tecnici, Alex Foglino, un milanese appassionato del cinema italiano e della cultura, un coreografo che purtroppo non c’è più, un carissimo amico, e un altro paio di persone. Da questo mix nasce Frizzi2Fulci, che poi ha viaggiato…”.

Viaggiare e gustare: avventure con la renna

Viaggiare è la cosa più bella: qualche aneddoto gastronomico delle tue peregrinazioni musicali?
“Sì, nei miei viaggi ho incontrato diverse stranezze gastronomiche. Cominciamo da Helsinki. Grazie al mio primo editore Carlo Bixio arrivai a Helsinki con la band di Frizzi2Fulci e lì scoprii che ero una persona famosa senza saperlo. Il brano che avevo scritto per il mio primo film ‘Amore libero-Free love’ – ‘Ibo-Lele’ nell’originale, poi fu chiamato ‘Mombasa’ nella versione discografica del 1975 -, era diventato, in Finlandia e a Helsinki in particolare, una di quelle canzoni che sanno e cantano tutti. Un po’ come ‘Volare’: nel senso che, cominci a cantarla, e ti seguono.

Una cosa paradossale nel mio costante bisogno di modestia. Anche la signorina che mi ricevette all’aeroporto mi chiese ‘Ma lei è Frizzi quello di ‘Mombasa’?’ e mi chiese subito un autografo. Inutile dire che mi trattarono molto bene. Ma andiamo al cibo. In Finlandia si cena molto presto. La sera uscimmo con la band per andare a mangiare qualcosa. Eravamo in centro e trovammo un posticino delizioso a poche centinaia di metri dall’albergo. Conduzione familiare: da toscano, sai cosa vuol dire, uno di quei posti in cui subito senti il profumo da fuori. Però non si era prenotato e ci mandarono via. Dopo un gran giro trovammo un altro posto – pensa te – con lo chef italiano: quando sentì le voci italiane, venne subito. Era un posto molto alto.

Dovemmo stare attenti per non spendere una cifra inenarrabile! Ma la cosa incredibile era che, fra le pietanze, c’era la renna. Io sono quasi vegetariano, però ogni tanto un bel pezzo di ciccia lo mangio volentieri. Quella sera, dopo le epoche di Babbo Natale, facemmo la conoscenza della carne di renna, una carne meravigliosa servita dopo lunghe cotture e con sughi particolarmente buoni. Ogni tanto con i ragazzi se ne riparla, oltre che per la bastonata economica che ancora ci ricordiamo, anche perché fu una cena indimenticabile. E unica: non si mangia la renna tutti i giorni!

C’è però anche un ricordo ‘alimentare’ meno piacevole. Dopo il concerto, bello, con ‘IboLele’ cantata da tutti, eravamo contenti. La mattina dopo si fecero i bagagli per tornare a Roma. Nel negozio in aeroporto prima dell’imbarco, trovai una specie di grossa Simmenthal con carne di renna da portare ai miei figli. La presi per fargliela assaggiare: un’esperienza, un sapore diverso. Una volta comprata, stupidamente non la misi in valigia, ma nel borsone che avevo con me.

Le valigie partirono, noi passammo tutti i controlli e lì mi dissero che avevamo con noi una cosa che non potevamo portare, la Simmenthal. Io spiegai che l’avevo comprata nel negozio vicino, ma non ci fu niente da fare: l’addetto la prese e la buttò nel cestino dell’immondizia! Io ho un nonno toscano e certe cose mi escono alla toscana: accesi l’intero aeroporto con improperi assolutamente unici, ma quel pezzetto di renna rimase a Helsinki. Costava un sacco di soldi: chissà che poi non se la sia recuperata il controllore!”

Viaggiare e gustare: il panino di Philadelphia

Ormai conosco bene Philadelphia. Ci sono stato quattro o cinque volte, tre delle quali a suonare. Forse dal libro si capisce che io sono un bambino di otto anni trapiantato nel corpo di un signore di quasi settanta. Ancora oggi, se ci sono delle cose che mi entusiasmano, sto bene, le vivo con un’amplificazione particolare, come vissi questo benedetto Philly Cheesesteak.

Quando parti per un luogo, prima leggi qualcosa, ti informi, poi però all’arrivo c’è il sound check, l’albergo, insomma non hai quella libertà di andare in giro con la famiglia o con un amico. In ogni caso, quando la prima volta arrivai a Philadelphia, il mio chitarrista riuscì a farmi assaggiare un morsino di questa cosa che aveva preso, ma finì lì.

Al termine del concerto, c’erano un po’ di amici americani, fra cui Scooter McCrae, fresco regista di un cortometraggio con le mie musiche, sua moglie, poi i miei ragazzi: nella notte, riuscimmo ad arrivare a una piazzetta che non saprei mai più ritrovare, dove c’erano tre posti, uno qui, uno lì e uno là, davanti ai quali, all’una di notte, c’era la fila!

Erano i posti migliori per mangiare un buon Philly Cheesesteak. Che non è un panino che faccia benissimo: pane, carne e formaggio, ma è una poesia vera. La seconda volta a Philadelphia ricordo che si consumò un autentico rito: ci fermammo a un baracchino per strada, di quelli… aiuto!, da segno della croce, per mangiare questo panino. Philadelphia è anche il Philly Cheesesteak, oltre che, come puoi immaginare, Rocky e la famosa scalinata che abbiamo percorso su e giù tante volte: un luogo mistico, quando la sali ti senti Rocky Balboa!”.

Viaggiare e gustare: il brindisi con il Laphroaig…

“Premetto che mi piacciono le cose buone e un sorsino lo do volentieri, però non mi porterei dietro un superalcolico: anche un poliziotto americano può cercare fra le mie cose senza trovare nessuna bottiglia. Mai. Ma non quando c’è di mezzo proprio l’amico di cui ti parlavo prima, Scooter McCrae, che vive a Brooklyn ed è il regista di una delle cose più carine che ho fatto in America in questi ultimi anni, ‘Saint Frankenstein’, un cortometraggio di 25 minuti, molto interessante.

Ci vogliamo bene anche se ci vediamo ogni tanto, ma è un’amicizia vera e profonda. Lui ha un piccolo vizietto: ama bere e porta sempre con sé la fiaschettina di metallo, molto cinematografica. È piena in partenza, ma quando torna a casa non lo è più. Lui sa che io, soprattutto quando devo suonare, devo essere sobrissimo e concentrato. Insomma, al Festival di San Diego vinsi un premio proprio per le musiche del suo film: me lo portò lui incontrandoci vicino a New York in occasione di un mio concerto.

Mi abbracciò e mi disse che dopo mi avrebbe consegnato il premio. Finite le prove e prima del concerto, ci mettemmo lì e me lo consegnò. Però volle brindare: prese il tappino della fiaschetta, ci versò un pochino di whisky Laphroaig, che tra l’altro ha un profumo incredibile, come di terra, e praticamente brindammo lui con la fiaschetta e io con il tappino! Come retaggio di questo momento e in considerazione del fatto che, come ti dicevo, mi piacciono tutte le cose buone, quando tornai a Roma, andai in un negozio vicino a casa e me lo comprai. Da allora una bottiglia di Laphroaig in casa mia c’è sempre”.

Londra, il faro dell’Europa

Qual è un viaggio, tour a parte, che ricordi particolarmente?

“Gli ultrasessantenni come noi, anche se tu sei più giovane, sono cresciuti tutti con un’esterofilia forte e Londra è sempre stata Londra: per motivi musicali, per la moda, per tante cose. Era un po’ il faro dell’Europa, insieme a Parigi, ma più di Parigi, secondo me, almeno nella mia mentalità di ragazzo. Ecco, incredibilmente, io a Londra sono andato tardi. Avevo già 51 anni. Ormai è però una città che sento molto mia: soprattutto per chi fa arte e musica, è una città importante.

Quella prima volta ero con mia moglie ed era uno dei nostri viaggi in occasione degli anniversari di matrimonio, grazie ai quali abbiamo visto quasi tutta l’Europa. Londra è particolare. La prima volta la definii un “Luna Park per adulti”. È bella e stupisce costantemente proprio come un luna park. E poi, anche se le sappiamo tutte perché comunque siamo cresciuti studiandola o guardandola, sarà forse anche perché vanno in macchina al contrario, ma lì sembra tutto diverso dalla nostra realtà. A Londra però non è così facile mangiare. Londra, ma pure tutta l’America, è ormai standardizzata su consumi anche buoni, però privi di quel guizzo che noi italiani mettiamo sempre.

Tu sei in Toscana e lo sai meglio di me. Io e mia moglie Francesca abbiamo una casa a Riparbella, in provincia di Pisa, e quando andiamo lì mangiamo sempre roba buona! Ma da noi dovunque: in Liguria, in Trentino… Londra è diversa. In giro puoi anche trovare delle piacevoli sorprese, ma è uniformata. Qualche buon hamburger si mangia dappertutto, ma per poter gustare una vera pie ho dovuto aspettare che un amico di mia figlia la preparasse lui personalmente una sera a casa sua. Probabilmente era molto migliore di quelle che si mangiano in giro!”.

Finale con gli zombies!

Inevitabile la domandina sugli zombies, sempre in tema ‘gastronomico’. Gli zombies, oltre a dividersi fra quelli lenti e quelli veloci, hanno anche due scuole di pensiero nel ‘cibo’. Alcuni zombies attaccano qualunque parte del corpo umano, altri solo il cervello, come nella serie tv ‘I-Zombie’. So che preferisci gli zombies lenti, come me, ma quanto alle loro scelte alimentari da che parte stai?

“Sto pensando agli zombies che ho incontrato nella mia vita lavorativa per capire se esista una statistica sulla quale appoggiarmi, ma non mi viene. Io personalmente apprezzo molto le interiora, presenti anche nella meravigliosa cucina toscana. Proprio stamani ho comprato i fegatini che cucinerò domani per la famiglia come li faceva la nonna con i crostini fritti. Quindi il mio zombie ideale, se ha fame – per carità – mangia un po’ di tutto, ma in realtà preferisce quei bocconi preziosi che sono le interiora delle persone di cui si nutre”.