In medias res, non possiamo dire di essere rimasti del tutto soddisfatti dalla lettura de ‘Il catechismo della pecora’, di Gesuino Némus. Certo, originale è originale, per lo meno ci prova concretamente. Il libro, però, manca un po’ di amalgama fra le varie parti, anche eterogenee fra loro, che lo compongono: ad esempio, le frasi celebri e le citazioni che introducono ogni capitolo e gli incisi di cultura locale che si frappongono qua e là tra un passaggio e l’altro della storia non fanno bene, secondo noi, a un insieme che avrebbe meritato meno discontinuità.

Resta, più che un affresco, un mosaico un po’ frammentato di personaggi, eventi e sensazioni. E non lascia indifferenti. Tutt’altro. Ma non basta a farne un gran romanzo. A sua difesa, aggiungiamo che probabilmente lo avremmo apprezzato meglio se avessimo letto i precedenti libri di Némus. Cosa che, come si intuisce, non abbiamo fatto. E questa è colpa di chi scrive, non certo sua.

Tuttavia, dalla nostra particolare angolazione, ‘Il catechismo della pecora’ è una miniera di indicazioni, com’è nella storia editoriale di Matteo Locci (vero nome dell’autore) da Jerzu, in provincia di Nuoro, il quale, in omaggio alla sua splendida terra, si diverte a infarcire la narrazione anche di gustosi riferimenti enogastronomici della tradizione sarda.

È così che, nella consapevolezza che anche tutti questi riferimenti culinari concorrono all’andamento dispersivo del libro evidenziato in apertura, è comunque divertente immaginare vivande e bevande via via che le loro descrizioni e citazioni si susseguono di pagina in pagina. Senza spoilerare, naturalmente. Diciamo, una breve e saporitissima antologia.

A partire non dalla prima menzione in ordine cronologico, piuttosto dal passaggio che meglio di altri rappresenta il senso di tali intermezzi: “La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa, per il genere umano, che la scoperta di una nuova stella. Il maggiore non ricordava chi avesse detto una frase così geniale ma lo pensava anche lui, dato che solo da pochi mesi aveva scoperto quel piatto meraviglioso. Un delirio di sapori che non aveva mai gustato nella sua Roma: sa frègula, piccole palline di grano duro, tostate nel forno e cotte lentamente nel brodo di pesce: seppioline, cozze, calamaretti, moscardini, arselle, vongole, datterini freschi, pomodorini secchi, aglio, porro, peperoncini, olio extravergine, basilico e sale. C’era di che impazzire per la bontà. E quel vermentino ghiacciato che andava giù come fosse acqua, così eclettico nell’accompagnare verdure e pesce insieme, profumatissimo di macchia mediterranea e scorzette d’arancio”… e ci fermiamo qui per non sciupare il piacere della lettura e della conoscenza di questa pietanza, poi seguita dalla spigola di schiuma e dall’immancabile vermentino, a integrazione del quale, non mancheranno, più avanti, il “mirto ghiacciato fatto in casa”, ovviamente il cannonau e il fil’ e ferru, pure ghiacciato.

Ancora…

“Ha mangiato una minestra di ceci e ha bevuto alla fine del pasto un bicchiere di amaro alle erbe di sua produzione”.

“E rincarava la dose, dopo il terzo giro di cannonau, mentre Samuele affettava Su sartizzu, la meravigliosa salsiccia sarda, o inaugurava una forma di pecorino freschissimo che gli era stata regalata da uno dei suoi amici pastori”.

“… i migliori culurgiònes si mangiano il 2 novembre, il giorno dei morti. Da secoli è così. Che fossero solo fave e uova o della semplice pasta fresca fatta in casa proprio il giorno del funerale, si mangiava sempre benissimo. Si apparecchiava anche per il morto, come se fosse in ritardo al banchetto”.

“Non ebbero neanche il tempo di assaggiare il porchetto arrostito nel mirto…”

“Scorse a fiumi, la nostra birra, quella notte, e anche padre Carlo ci diede dentro. Chi aveva preparato is coccòis prenas, chi sa coccòi ‘e tamata, chi invece le seadas; ognuno aveva contribuito in base alle proprie possibilità e all’estro del momento”.

“… quella volta che, entrato per caso al bar, li aveva trovati alle prese con una forma monumentale di casu marzu, il pecorino coi vermi […], forma di pecorino, coltivata per un anno nel retrobottega di Samuele, acché le larve di mosca copulassero felici e incoscienti in modo tale da riprodursi…”

“Tacque e lo spaghetto alla bottarga appena servito in tavola diede un senso più compiuto al silenzio…”

E chiudiamo con una particolarissima merenda scolastica di metà mattinata: “Che quando la aprivi alle 10:30… di tutto, succedeva. Altro che Nutella. Maialino avanzato dalla sera prima, ripassato nell’aceto, pecora in cappotto, salsiccia di cinghiale, carta musica con olio e rosmarino, pecorino (solo un assaggio) e poi Lui, il cannonau, il Vino Supremo che mio padre mi nascondeva in una bottiglietta di succo di frutta, in V classe, ‘Ca di faidi sàmbini a su pippiu [Ché gli fa sangue al bambino]’”,

“Il catechismo della pecora”, di Gesuino Némus. Forse mai come questa volta il libro è servito!